Salire sempre più in alto fino a toccare il cielo” è un romanzo ricchissimo, quasi affollato di personaggi, che s’incontrano, si scontrano, si perdono e si rincontrano, ricamando storie fitte di intrecci e dense di umanità. Impossibile, dunque, soffermarsi su ciascun personaggio e le sue vicende, mentre può essere utile ricostruire l’atmosfera del libro e metterne in rilievo le tematiche fondamentali.
Il titolo, in un certo senso, può trarre in inganno: al salire, naturalmente, si attribuisce un significato positivo, ancor più se si tocca il cielo, ma la lettura del romanzo costringe a ricordare, fin dalle prime pagine, che la salita è tanto faticosa, che sotto i piedi c’è l’abisso, che si può cadere e ci si può fare molto male; anzi, la stessa dedica mette in guardia da ogni facile ottimismo: “A tutte le anime che soffrono in questo lungo viaggio che è la vita”, cui faeco la prima frase del libro, che è una domanda angosciata: “Cos’è il dolore?”.
Dunque, c’è sempre un personaggio che ha posto in alto la sua meta, con i rischi di cui si diceva, ma la montagna più faticosa è quella della virtù. Infatti, nel romanzo di Castrovinci, appare subito chiara la tensione morale, il desiderio del bene, oltre che del bello, il tentativo di far coincidere i due aspetti in una rassicurante armonia, il bisogno di rinnovarsi, di purificarsi da quelle tentazioni che, durante il corso della vita, possono inquinare la purezza dell’anima e procurare sofferenza a sé e agli altri.
Il cielo da toccare sta molto in alto, ma, poiché la causa del male è dentro di noi, i protagonisti, per accedervi, devono partire da sestessi, scendere nel sottosuolo della loro interiorità, così che alcuni di loro passeranno anche dallo studio di una psicoterapeuta, posto anch’esso in alto, in cima ad un edificio, il palazzo dei sogni,attraverso un ascensore angusto, che ai lettori dei testi sacri richiama la via stretta che porta al bene. Tutto ciò, in ogni caso, sottolinea quanto sia complesso il percorso che conduce a un equilibrio interiore, se mai lo si raggiunga.
Sì, perché questo romanzo non è esattamente a lieto fine: tanti personaggi, è vero, risolvono i loro problemi, ma nel libro serpeggia il dolore e l’insoddisfazione, l’attrazione del vietato, il tormento e la lotta per restare fedeli ai propri principi; talvolta, s’incontra anche le morte.
A questi uomini e a queste donne fa male l’anima.
In loro è costante il vagheggiamento della bellezza, strettamente legata all’eros, una bellezza che spesso turba, anziché rasserenare,e mantiene vivo un conflitto che, con termini antichi,chiameremmo fra “amor sacro” e “amor profano”. Forse, come dice Massimo Recalcati, c’è qualcosa di malato nel modo umano di amare o, forse, come scriveva già Omero, Eros non è affatto un bellissimo dio, ma è il desiderio fisico, insaziabile e crudele, tormentoso e ingestibile. Al grande aedo avrebbe fatto eco, qualche secolo dopo, Saffo, che definì Eros λυσιμελής (che scioglie le membra), belva γλυκύπικρον (dolceamara) e ἀμάχανον(invincibile), mentre Platone, nel suo “Simposio”, fa raccontare a Socrate la nascita di Eros da Poro (la via, ma anche la via d’uscita, l’espediente ingegnoso) e da Penìa (la mancanza, il bisogno). L’amore, dunque, lungi dall’essere possesso, è desiderio di ciò che non si possiede, per cui l’insoddisfazione è intrinseca alla suastessa natura.
Ma le cose si complicano ulteriormente quando il desiderioerotico è vissuto come “peccato” contro la morale cristiana, innesto nuovo sull’antica civiltà greco-latina. La letteratura italiana, fin dalle origini, registra questo conflitto, più o meno profondo, a seconda dell’epoca e della sensibilità dei singoli autori: ad esempio, Jacopo da Lentini, poeta alla corte di Federico II di Svevia, afferma, in un sonetto, di voler servire Dio per andare in paradiso, ma di non volerci andare senza la sua donna, mentre Guido Guinizzelli, padre dello Stilnovismo, immagina che la sua anima, arrivata in paradiso, venga rimproverata da Dio, perché si è abbandonata a un amore “vano”. Vano e peccaminoso sembra anche al Petrarca il suo amore per Laura, di cui dice di pentirsi e chiede perdono a Dio, ma a cui ritorna sempre, nonostante i buoni propositi.
La bellezza, dunque, compagna dell’amore, impregna di sé molte pagine del romanzo: corpi statuari, sia maschili sia femminili, occhi grandi, in cui si rischia di naufragare,inseguimenti e fughe, anche fatali. Persino la bellezza della natura è ambivalente, complice sia della serenità sia della seduzione.
Ma non c’è quasi mai un sereno appagamento: la sensualità che avvolge molti personaggi porta con sé angoscia e presagio di morte, con la quale sembra misteriosamente apparentata in un legame tossico, quasi per un eccesso di vitalità che sfocia nel suo contrario (un magnifico esempio letterario di questa ambiguità si trova nella figura del principe di Salina, indimenticabileprotagonista del “Gattopardo”, di Tomasi di Lampedusa, un siciliano di affascinante vitalità, ma che “corteggia” la morte).
Nel romanzo di Castrovinci, tutte queste contraddizioni esplodono nel protagonista, Angelo, privo di certezze e perennemente disponibile all’avventura erotica e sentimentale: s’innamora di tutte, ma è il più triste e tormentato, anche perché ha una moglie, di cui dice di essere innamorato, ma la cui voce, significativamente, non affiora nella narrazione e lei vive solo nei sensi di colpa del marito, rappresentando le vulnerabili, traballanti colonne d’Ercole della sua coscienza.
Angelo ha un amore sfrenato per la vita: s’inebria delle calde estati siciliane, di odori e colori, di vino e di pane caldo, ma il suo cuore, mai al sicuro, aspira alla redenzione ed esamina con tormento la propria condizione spirituale. Così, in una notte insonne di primavera, passando in rassegna i peccati capitali, scopre di averli commessi tutti, tranne furto ed omicidio, ma gli manca la forza della rinascita, nonostante la buona volontà, che lo spinge a notevoli sacrifici. Angelo è portatore di una virtù triste: si può astenere, talvolta, dall’amare una donna con il corpo, ma la sua anima è divorata dalla passione, per cui si trova nell’infelice condizione di non possedere realmente né la virtù né la donna desiderata; egli, nonostante gli sforzi, non diventa mai un uomo nuovo, capace di frutti nuovi, che ne attestino il cambiamento radicale.
Di qui l’elogio della morte, che libera per sempre, sotto il cui sguardo egli intravede l’unica possibilità di redenzione: “Dopo una vita vissuta nel tormento, con brevi momenti di felicità, il suo dolore ora cessava e lui si sentiva veramente felice” (pag. 221).
Dunque, ricerca del bene e perdizione, instabilità di sentimenti e bisogno di punti fermi, amore e morte sono le antinomie di un’umanità viva e dolente, in un romanzo in cui, comunque, non viene mai meno la tensione verso l’alto: forse, anche la morte, infine, non è che un volo, che porta molto lontano, felicemente lontano.
Maria Lizzio